giovedì 22 maggio 2008

POLITICA : CONTRIBUTI ALLA SINISTRA

Informazione, società dell’informazione, sinistra per cambiare

di Maurizio Aversa

Come sempre è una questione di analisi. Se comprendiamo ciò di cui ci vogliamo occupare, potremmo anche essere in grado di stabilire ciò che vogliamo. E, misurati i rapporti di forza, ciò che possiamo e quale struttura organizzativa ci necessita per raggiungerlo.
Siamo nella società dell’informazione? Si e no.

Si, lo siamo.
Se ci vogliamo riferire al fatto che dal nostro punto di vista, di minoranza di paesi occidentali sappiamo come si domina-rapina il rimanente 80% del pianeta. Non solo nel senso dei beni materiali e dell’aberrante meccanismo che distrugge migliaia di vite umane ogni giorno per stupide ed egoistiche scelte compiute a centinaia-migliaia di chilometri da dove la tragedia ha svolgimento. Ma anche e soprattutto nel senso che senza sentirne il peso, con lo stesso meccanismo si cancellano relazioni umane, sedimenti culturali, storie di popoli che, sopravvissuti a secoli di darwinismo sociale e naturale, vengono spazzati via dalle scelte predatorie dei dominatori. Dominatori, imperialisti che, banalmente, quando non riescono più a far quadrare i conti del meccanismo perverso dell’arricchimento capitalistico, allungano la mano e, in grande, svolgono la medesima funzione che hanno già perpetrato all’interno dell’area a loro più prossima. Ora tutto questo fare, non nuovo, assume anche l’aspetto di connotarsi come inserito nella “società dell’informazione” sia per la semplicità della diffusione della conoscenza degli accadimenti; sia perché si caratterizza di altri due elementi assenti nei decenni precedenti. Uno è la velocità della conoscenza diffusa e delle scelte compiute dai detentori del potere che permea tale tipo di società. L’altra è l’omologazione culturale e politica che consente – all’apice del raggiungimento – l’applicazione del meccanismo:

potere economico = potere politico;
potere politico = condivisione dei modelli-valori culturali;
condivisione dei modelli-valori culturali = pericolo dei diversi.


E’ fin troppo facile, e non è costruito al contrario questo approccio analitico già presente – prima della catastrofe elettorale – nella società, nel movimento pacifista terzomondista, nelle minoranze (?) sindacali organizzate, nel fermento delle riflessioni degli intellettuali, nella sinistra storica, in quella nuova ecc.

No, non lo siamo.
Se prendiamo come orizzonte di analisi non il “nostro punto di vista” ma la situazione quale essa è nei rapporti tra poche centinaia di milioni di persone a fronte di miliardi di persone; dove i rapporti tra poche nazioni della società occidentale capitalisticamente strutturata con altre decine di paesi non passano assolutamente per la società dell’informazione, anche se cominciano ad affacciarsi i modelli-valori culturali, ma sono improntati all’asservimento delle oligarchie di potere locale. In verità, non è riproposto il vecchio modello del capo (e famiglia) locali a cui affidare la guida della repubblica delle banane. Siamo ad una evoluzione raffinata. Pensiamo all’operazione Bush Junior, che sconquassa i Balcani, fa svolgere il ruolo di gendarme all’Europa e poi mette a capo del governo di Kabul, Karzai. Quello stesso, che è stato funzionario per tanti anni nelle finanziarie delle spa petrolifere della famiglia Bush. Quello stesso che fa veicolare fiumi di denaro, per le scelte geo politiche, per le scelte delle infrastrutture per le fonti fossili, per le scelte (non scelte) dell’aumento esponenziale della produzione di oppio in Afghanistan, verso i fondi Carlyle, guarda caso riconducibili alle stesse spa della famiglia Bush. Quanto c’è di casuale sul ruolo pesante che Carlyle sta svolgendo in Gran Bretagna, in Francia, in Germania ed in Italia nei settori immobiliari e finanziari (non sono un esperto, sono solo un lettore quindi non deduco per gli altri)?
Dunque, se è giusto affermare che la lettura mondiale ci fa escludere di essere nella società dell’informazione globale. Non possiamo tacere che la globalizzazione, e, qundi la società dell’informazione dal punto di vista occidentale c’è.
Poiché, noi poveri comunisti, povera gente di sinistra sconquassata dai dominatori e dalle nostre cicliche manie autolesioniste, operiamo da questo punto di vista e da questa parte del pianeta, è bene che approfondiamo con esattezza per poi prendere le contromisure e, soprattutto, per non essere semplicemente subalterni (ad analisi, riferimenti culturali, forze organizzate) proponiamo un progetto, sorretto da un impianto ideale, attivato da una forza organizzata. Insomma, pratichiamo l’essere, oltre che il ritenersi, comunisti.
Il vecchio detto che i preti non chiedevano tanto al popolo, solo gli anni fino all’adolescenza dei ragazzi per formarli, aveva davvero un suo fondo di verità. Non a caso la Chiesa (struttura) è stata in grado velocemente di aggiornarsi. Infatti quando sulla scena sociale ha iniziato ad imperversare un nuovo dispensatore di modelli di stili di vita di idee da perseguire, molti hanno pensato che sarebbe stato sufficiente conoscere dall’interno il nuovo meccanismo; praticarlo; pensare perfino di addomesticarlo; per esserne poi travolto non da una “campagna” ma dalla permanenza quotidiana della proposta unica: contano i furbi, conta il denaro, conta l’egoismo, conta essere tutti convinti che questo è il succo della società. Il resto, il diverso è il potenziale nemico. Naturalmente il riferimento diretto era alla televisione. Ma non solo come “programmazione” che conta ma può variare. Anzi, nella produzione, un “diverso” che sia ribelle ma non rivoluzionario; antitetico ma non alternativo è ancor più addomesticabile all’interno del disegno omologatore. Per questo si cacciano Santoro, Biagi, Guzzanti e Lucchetti, ma poi si cerca (ma non tutti) di ammansirli con le tirate d’orecchie. Per questo la Chiesa corre ai ripari per amplificare il segnale della radio vaticana nel mondo; crea una struttura televisiva sul satellite; struttura una delle università consorelle (Lumsa) col fine di sfornare professionisti della comunicazione inviati in redazioni e televisioni: figlia di tale operazione è la Bianchetti. Ma detto questo abbiamo raggiunto il cuore del problema. Infatti, se è vero che l’attenzione non dobbiamo limitarla ad una presenza strutturata in un determinato momento: campagna elettorale ecc.; è soprattutto vero che il fenomeno va compreso nella sua vastità.
Essa ha un nome: l’industria culturale.
Se la Fiat produce automobili, se l’italsider produce acciaio, se l’enel produce energia e le multiutility i servizi; senza una azione permanente e pianificata della ricerca ragionata, ammansita, ludica, intelligente del consenso ad uno stile di vita, ad un ordinamento di valori, quelli rimarrebbero più ai margini di quanto non lo siano per altri motivi intrinsechi al capitalismo.
Insomma, è il mercato bellezza! Ma, al proprio interno è un mercato feroce – mors tua vita mea -, mentre dall’esterno è un meccanismo quasi perfetto perché l’industria culturale (vicinissima al fare politica, alle istituzioni, al potere) propone i contenuti che riceve dal potere dominante e li trasforma banalmente in desideri individuali dai quali nessuno può prescindere. Senza scivolare nel moralismo: ma che cosa sta producendo la nostra società che sia così indispensabile agli individui? Molte cose sarebbero da ramazzare come in un famoso manifesto che buttava fuori dal mondo pezzi di potere capitalistico. Noterete che il riferimento ai contenuti sta lì. Ma che cosa si intende. Per esempio, i contenuti di grande parte della produzione fisica di libri per la trasmissione del sapere (da cui i possibili modelli) sono nelle mani di Dell’Utri e Berlusconi. E la produzione cinematografica? Non è forse divisa tra parecchia produzione che non circola – nei cinema o sui teleschermi – e molta altra acquistata da produzioni estere (soprattutto americane) da parte soprattutto di mediaset? E chi si interroga sulla televisione di Stato da mettere sul mercato? Col beneplacito di Veltroni e del PD.
Per tornare all’analisi iniziale. Non una campagna “sulla sicurezza” ha scompaginato la tenuta del partito di centrosinistra moderato (come ama definirsi Veltroni) e la coalizione dei partiti di sinistra nella loro esperienza di SinistraArcobaleno. Bensì una presenza sedimentata di modelli culturali e di valori (?) ideali veicolati col consenso ad ondate. Sezionando la società si può scientificamente perseguire tale attività, pensando a prodotti appositi: per gli anziani, per i giovani, per i rampanti, per i socialmente sensibili, ecc. Insomma una versione aggiornata del programma per l’Italia del venerabile che non a caso diede a Silvio Berlusconi la tessera numero 1882. Non a caso altre le hanno avute Cicchitto ed altra compagnia presente nell’establishment economico-politico riconducibile a quello stesso che iniziò la propria scalata dal regalo craxiano delle frequenze tv. Quella stessa notte che cinque “veramente nobili” ministri della sinistra democristiana si dimisero in blocco dal governo (va beh, ma allora andavano di moda valori e rispetto di se stessi. E schiena dritta come amava dire quel comunista di Montanelli). Questa vivisezione, per dire che se vogliamo anche assumere qualche contromisura circa i contenuti e l’azione politica e, specificatamente politico-culturale, occorre individuare un terreno idoneo. Ad esempio, non siamo presenti in Parlamento. Però, è consentito, anzi per noi è obbligo, poter avanzare proposte di legge popolare.
Guarda caso, proprio su questi “argomenti” della comunicazione e del conflitto di interessi, un governo fu distratto (e il Parlamento al seguito); il successivo non ci pensava proprio; il seguente fu interrotto per l’iniziativa veltroniana sui grandi scenari che avrebbe di lì a poco aperto…. ed ora, è proprio il nostro momento di andare tra gli elettori, tra i compagni, tra i cittadini democratici e rinnovare con loro l’impegno a far approvare una legge “normale” che risolva il conflitto di interessi per chicchessia e soprattutto per qualcuno che lo vuole scavalcare perfino da presidente della repubblica prossimo venturo. Cioè una legge che restituisca dignità di prodotto culturale e servizio pubblico per quanto attiene ad una parte dell’industria televisiva, e quindi culturale, italiana. Ma anche una legge che mostri con immediatezza al nostro blocco sociale di riferimento e a tutti i cittadini democratici che lo scontro non è tra l’intrapresa e la proprietà pubblica delle produzioni radiotelevisive, ma tra gli equilibri dei poteri democratici che in una società repubblicana e costituzionale non possono essere accentrati. In questo ragionamento, che all’apparenza appare ideologico e “difficile”, invece è semplicissimo far aderire sia chi ha la storia sulle spalle che i più giovani. Infatti occorre riflettere sul fatto che le regole democratiche, e la sensibilità costituzionale (che maldestramente Veltroni e il Pd hanno con faciloneria riconosciuto al PDL) non sono nei fondamenti costitutivi di questo governo e di questa maggioranza. Fino a che nella casa delle libertà era presente Casini e l’UDC, per un verso o per l’altro, il retaggio con la costituzione, con i valori democratici che si sono fusi come lascito della resistenza, erano conosciuti, e, per così dire, alcuni anticorpi democratici entravano in azione. Ma ora, con l’uscita dalla maggioranza e dal governo dell’UDC, siamo nelle mani di postfascisti che non si sono mai riconosciuti nella origine della costituzione e nei valori fondanti di essa (anche così si spiega la rincorsa tra Fini e Alemanno a chi è più veloce ad andare a mettere corone in ricordo delle vittime del fascismo). Per non dire dell’humus xenofobo ed anticostituzionale della Lega. Senza tacere, infine, la verve razzista, il negazionismo culturale e politico, l’anticostituzionalismo (ricordate la vicenda sulla festa del 25 aprile) di Forza Italia. Ed alle loro “scelte” non c’è nessun legame che possa far da freno. Ecco perché è semplice spiegare a cittadini democratici, siano essi sessantenni o diciottenni, che occorre porre riparo. Anche con leggi popolari, da sottoscrivere e far discutere e approvare in Parlamento. Però, visto che stiamo analizzando il profilo culturale del nostro conflitto in essere, non possiamo sottacere della scuola. Anche qui, un progetto semplice che indichi di togliere i denari pubblici per sostenere le scuole private, e, al contrario, pensare alla scuola come nuova risorsa per dar vita a moderni cittadini, democratici, solidali, consapevoli della cultura dell’accoglienza. Questa può essere un’altra proposta di legge popolare da presentare. Per quanto attiene il livello più locale – che infatti, quelle proposte hanno senso in quanto le possiamo sollecitare all’orizzonte nazionale dell’iniziativa – dovremmo continuare, almeno fino ai congressi; confermando sia il livello del confronto – temi e contenuti scelti insieme – che gli strumenti che stiamo sperimentando il blog, le assemblee e forse in seguito anche pagine scritte da divulgare a stampa.
Marino, maggio 2008

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